Mi hanno sempre detto che era normale, che i matrimoni vanno così, che non va bene che una donna, da sola, decida di lasciare il marito e di farsi una vita sua. Hanno sempre pensato che fosse stupido che io volessi studiare e diventare indipendente.
Hassan non mi dava mai soldi, nemmeno per le bambine. L’unica cosa che facevamo era andare al supermercato il sabato. Ci portava lui in macchina, ma non potevamo mai scegliere quello che volevamo: si compravano solo le cose necessarie. Era l’unica volta che pagava lui. Per tutto il resto, per tutte le cose per Asma e per Fatima, ero sempre io che pagavo.
Quando è nata Fatima lui non l’ha nemmeno toccata. Me lo ricordo bene quel giorno: ero appena tornata dall’ospedale. Lui non mi aveva neppure aiutata a portare il passeggino a casa. Allora ho capito che c’era qualcosa. In verità lo sentivo già da prima. Ma noi donne vogliamo sempre giustificare tutto, non ci rassegniamo al fatto che chi amiamo possa comportarsi diversamente da come vorremmo.
Sono in questo centro d’accoglienza da più di un mese: mi hanno dato una stanza singola, insieme alle bambine. Ci sono arrivata sotto protezione, perché le assistenti sociali non vogliono che si sappia dove mi trovo. Mi avevano consigliato di far cambiare scuola alle bimbe: sarebbe stato più facile portarcele. Ma io non ho voluto: è stato già troppo far lasciare loro casa per vivere in centri di accoglienza. Me lo domandano sempre, che ci stiamo a fare qui. “Siamo in vacanza” dico io. Ma loro non ci credono: “Il mare non c’è, mamma” mi rispondono. “E nemmeno la montagna”.
Quando è nata Asma avevo diciannove anni. Avevo un abito bianco e un bouquet di gigli. Abbiamo fatto il rito in Marocco perché tutta la famiglia di Hassan era ancora lì. Lui in Marocco ci è cresciuto. Io, invece, con la mia famiglia sono arrivata qui quando avevo un anno e mezzo. Ci siamo conosciuti giovani, io e Hassan. Avevo diciassette anni. Lui non è mai stato bello, ma io non ho mai pensato che la bellezza contasse. Era dolce, molto diverso da adesso. Le cose sono cambiate quando è arrivata la sua famiglia dal Marocco: si sono piazzati a casa nostra, ci sono rimasti otto mesi. Io ero innamorata, cucinavo per tutti. Per Hassan questa cosa sarebbe potuta andare avanti per anni. La sua famiglia voleva trasferirsi da noi.
Ma ad un certo punto mi sono stancata, e da lì è iniziato l’odio dei suoi verso di me: non mi comportavo come una donna marocchina, perché volevo studiare ed essere indipendente.
Sono cresciuta in una famiglia musulmana ma non seguo i dettami del Corano: sono credente ma non osservante. Credo in Dio e penso che sia uno solo. Possiamo chiamarlo in tanti modi diversi, pregarlo con abitudini differenti, ma alla fine non c’entra l’abbigliamento, non c’entrano i costumi. Bisognerebbe solo metterlo sul piano umano, rendercelo più vicino. Credo che molti uomini musulmani non abbiano un indole buona e non siano sinceri con se stessi. Anche se, certo, ci sono le eccezioni.
Adesso Hassan mi scrive e mi dice: “Ti rendi conto di dove sei, in mezzo ai drogati a mangiare pasta scaduta? Hai lasciato la nostra casa e sei finita lì”.
Avevamo una casa bellissima: l’avevo arredata io. Nel salone c’era un tappeto a disegni floreali, la cucina era gialla, con i mobili di legno e le piastrelle bianche. Mi è sempre piaciuto cucinare, specialmente le torte, il couscous e il tajine. Anche le lasagne col ragù mi piaceva preparare. Anche adesso vorrei farle, ma non posso. Mangiamo in mensa tutti insieme, a mezzogiorno e mezzo e alle sette e mezzo. Non è che io possa pranzare o cenare fuori, dove mi pare. Non ho i soldi per farlo. Nessuno me li dà, i soldi.
I servizi sociali mi danno vitto e alloggio, ma per tutto il resto devo pensarci da sola. Devo pagare quello che serve per le bambine: le medicine se si ammalano, un gelato, le patatine.
Pago tutto io.
Sono stata fortunata perché un’ amica mi ha fatto un prestito di cinquecento euro. Però io odio chiedere favori, e non vorrei doverla raccontare, tutta la mia storia. Né dire dove sono. Ho paura che Hassan lo venga a sapere e arrivi a cercarmi.
La prima volta che è successo era nata da poco Fatima, la nostra seconda figlia. Poco prima del parto ero partita per il Marocco per il matrimonio di mia sorella. Ci ero rimasta qualche settimana. Al ritorno i vicini hanno detto che in quei giorni a casa mia era stata una gran festa, con tanta gente per casa, uomini e donne. Da quel momento Hassan ha iniziato a chiedermi sempre più spesso di andarmene via nei weekend, di stare un paio di giorni da mia madre insieme alle bambine. Diceva di essere stanco, di aver bisogno di stare da solo. Io l’avevo capito che c’era qualcosa sotto, perché lui era sempre distante, passava pochissimo tempo in casa, non mi toccava più.
Io lo sapevo chi vedeva. Aveva iniziato a frequentare una prostituta, più vecchia e più brutta di me. Un giorno sono tornata a casa senza avvisare perché mi ero dimenticata il ciuccio di Fatima. Sono entrata in camera e l’ho trovato con lei, con una prostituta nel nostro letto. Ho cominciato a urlare. Hassan mi ha coperto la bocca, ha cercato di farmi smettere mentre lei si rivestiva e se ne andava.
Mi sono sentita ferita. Ho deciso di separarmi.
Quando lui lo è venuto a sapere mi ha pestato e ha tentato di soffocarmi. Avevo il collo blu e la testa gonfia di lividi. L’ho denunciato per maltrattamenti familiari. I miei genitori, però, dicevano che stavo sbagliando, che quello che succedeva era normale, che era così che andavano i matrimoni. Mi dicevano che dovevo tornare da lui.
Avevo ventiquattro anni. Ero senza lavoro.
Che avrei potuto fare? Sono tornata da lui.
Abbiamo cambiato casa, che io quel letto non lo potevo più vedere.
Io ho deciso di iniziare a lavorare, che avevo bisogno di guadagnare qualcosa e avere soldi miei. Ho trovato vari part-time a Torino. Intanto avevo scoperto che sia Fatima che Asma avevano dei problemi ai denti. Ho cominciato ad interessarmi al modo di curarli tanto che un giorno il loro dentista mi ha domandato perché, se ero tanto appassionata dell’argomento, non provavo ad iscrivermi ad una scuola per assistente di studio odontoiatrico. Mi ha detto che così avrei trovato un buon lavoro. Allora ho chiesto informazioni, fatto un colloquio e mi sono iscritta ad un corso serale.
Hassan, però, non era d’accordo: non voleva che io provassi ad essere indipendente.
Così ha cominciato a farmi dei dispetti: quando tornavo a casa lo trovavo a guardare siti porno, non faceva più la spesa, spargeva l’immondizia per casa.
Faceva di tutto per farmi perdere tempo, a me che di tempo davvero non ne avevo.
Mi alzavo sempre alle sei e un quarto, sistemavo per la colazione e facevo alzare le bambine. Le preparavo e le portavo a scuola. Poi andavo a lavoro e ci restavo fino alle tre. A pranzo mangiavo sempre un pezzo di pizza o le patatine. Sempre al volo, sempre di fretta. Poi tornavo a casa per un’ora per preparare la cena per Hassan. Alle quattro andavo a prendere le bambine e le portavo da mia madre: ci restavano fino alle dieci, mentre io facevo il corso serale. Quando tornavo a casa dopo aver ripreso le bambine trovavo sempre Hassan sul divano a guardare la televisione e i piatti della cena sporchi, ancora sul tavolo.
Lui non le teneva mai, Asma e Fatima. Raramente veniva con noi la domenica, quando io le portavo a fare una passeggiata fuori. Era molto arrabbiato con me per la scuola.
Un giorno quando sono tornata a casa mi ha detto che non potevo più andarci e ha cominciato a picchiarmi. Mi ha colpita a lungo, senza preoccuparsi delle bambine che sentivano tutto dall’altra stanza. Mi ha minacciata con un coltello. Mi ha detto che la notte non avrebbe dormito per preparare la sua missione contro di me.Avevo troppa paura.
Appena ho potuto sono scappata dalla vicina, che ha chiamato la polizia.
Hassan era rimasto con le bambine: ha provato a far imparare loro un discorso da ripetere alle forze dell’ordine. “Con chi volete andare?” domandava. Loro erano terrorizzate. Quando sono arrivati i poliziotti lui si è giustificato e ha detto che non poteva andar via di casa, che un altro posto dove andare lui non ce l’aveva. Io, invece, avevo sempre i miei genitori. Peccato che i miei non mi abbiano mai appoggiata.
Era il 29 dicembre 2016. Mi hanno portato in ospedale in ambulanza. Ci sono rimasta una notte. Sono uscita con un collarino e quindici giorni di prognosi. Poi i poliziotti mi hanno messa sotto protezione e le assistenti sociali mi hanno mandata in albergo insieme alle bambine.
Ho subito denunciato Hassan.
Quando, dopo tre giorni, sono tornata a casa per recuperare le mie cose, lui ha minacciato di darmi fuoco, ha preso le bambine e le ha caricate in macchina. I poliziotti le hanno recuperate dopo mezza giornata.
Avevo paura che mi venisse a cercare al lavoro, quindi mi sono licenziata. Sono andata in una casa di accoglienza e ho chiesto la separazione: mi hanno detto che ci sarebbero voluti almeno sei mesi. Anche la disoccupazione non l’avrei ricevuta subito.
A livello legale è tutto molto lento, anche se adesso ho tre avvocati che mi seguono. Non so come si andrà a finire con l’affidamento e con il mantenimento. Ho paura che Hassan faccia qualcosa di sconsiderato e scappi con le bimbe in Marocco.
Nel primo centro di accoglienza sono rimasta per qualche settimana, poi un assistente sociale mi ha consigliato di spostarmi. Così sono arrivata qui.
Sto cercando di continuare la mia vita, provo a mantenere il ritmo di prima. Con la differenza che non ho più né un lavoro né una casa e tutti i giorni passo due ore in macchina per portare le bambine a scuola dall’altra parte della città. Non voglio che Asma perda la sua amica Giulia e Fatima la maestra Margherita. Dopo averle accompagnate passo la mattina facendo il giro delle agenzie interinali: ho
mandato curriculum ovunque, ma non ho ancora trovato niente. La disoccupazione non arriva e Hassan mi deve 25000 euro di quando lavoravo per la sua impresa.
Quando torno qui la sera, in macchina, ho paura. E non dei drogati del quartiere.
Ho paura di lui, ho paura di incontrre Hassan, perché so che frequenta questa zona.
Mi ricordo sempre dell’ultima volta che mi ha minacciata con un coltello. E di quando mi ha detto:“Vergognati, guarda che vita ti sei scelta. Non ti rendi conto di quello che stai facendo?” Lui che in questo momento è tranquillo a casa, mentre io sono in giro per centri di accoglienza.
Lui che alla fine – un po’ me lo sento- riuscirà a convincere tutti che la colpa sia mia.
Non posso tornare indietro, quindi cerco di andare avanti, mi sforzo di essere positiva, ma certi giorni è difficile. Certi giorni mi sento sola e sto male.
E non solo per Hassan.
Sto male per questi dodici anni di relazione buttati.
Sto male perché io ci ho provato in tutti i modi, a restare.
Sto male per la mia famiglia, perché per loro sono io quella che ha sbagliato. Mio padre non mi parla più, e nemmeno mia sorella, che è sposata con un marocchino bravissimo.
Loro non capiscono.
Con mia madre, grazie a Dio, è un po’ diverso. La vedo tutti i giorni, quando porto da lei le bambine e mi fermo a fare merenda. Lei l’ha capito che lasciare Hassan è stato difficile, ma non riesce comunque ad appoggiare la mia decisione. Era soprattutto per le bambine che non volevo separarmi. Poi, però, un giorno mi sono svegliata e ho pensato: o mi ribello adesso, oppure a quarant’anni non avrò più la forza per farlo. E l’ho fatto. Dopo che mi ha picchiata a dicembre ho chiesto la separazione. Ormai l’ho capito che uomini nella mia vita non ne voglio più. Non è riuscito a volermi bene il padre delle mie bambine, come potrebbe farlo qualcuno con delle figlie non sue? Non ho più una casa, né un lavoro, né una vita normale.
Ho perso tutto quello che avevo prima, tranne le bambine.
Ma alla fine sono loro la cosa più importante che ho. Fatima, la più piccola è molto sveglia. A quattro anni già legge e riesce a dire tutti i giorni della settimana. Parla sempre. Troppo.
Asma è la più grande: ha otto anni. Fa danza classica e ha tante amiche.
Tutte e due parlano anche l’arabo: lo usano sempre con la nonna.
Per loro voglio una vita migliore. Voglio che studino, che non diventino mamme troppo giovani. È nella scuola il loro futuro, e probabilmente anche il mio.
Ora che sto studiando dentistica mi sto appassionando al funzionamento del nostro corpo, allo studio delle cellule, della biologia. Mi è sempre piaciuto studiare e anche leggere. Ma non i romanzi, non ne ho il tempo. Mi piacciono le riviste, gli articoli di storia e di scienza. Niente che riguardi l’amore. Hassan ora dice che gli dispiace, che si rende conto di aver sbagliato. Mi ha riempito di messaggi, supplicandomi di tornare.
Io non ho risposto mai. La ferita più grande in verità non viene da lui, ma dal comportamento dei miei familiari, quel loro schierarsi contro di me senza provare a capire le mie ragioni. Ma spero che un giorno capiranno.
Lo spero davvero.
“Mamma ti abbiamo fatto un disegno” Asma si avvicina e mi passa un foglio colorato.
Ci sono tre bambine per mano che combattono qualcosa.
“Siamo noi tre che combattiamo il nemico”.
Una storia vera.