È bastata una sedia vuota. È bastata la mia psicologa Lucia e quel suo invito a parlare con te.
Ha guardato bene Lucia: ha guardato il mio sorriso e ci ha visto la rabbia, ne ha osservato la limpidezza e ha scoperto la ferita, ha guardato me, i miei occhi scuri, e ha visto la schiuma densa della nostalgia.
È che mi manchi. E che mi urla contro e mi contorce, questo sentimento.
E tu mi respingi, guardi oltre, parli con qualcuno distante, parli con qualcuno al telefono.
E allora ti odio, ancora di più ora che non ci sei, ora che sto parlando ad una sedia trasparente, vuota come il tuo sguardo quell’ultimo giorno insieme. E non so più che contorni ha questo affetto che pensavo si spegnesse, che pensavo finisse, che pensavo smettesse di far male. E invece no: cresce dentro, questo legame tra me e te, questo amore che vedo solo io. Questo amore che mi calpesta, che mi fa urlare senza lacrime. Quelle fuori le ho disimparate. Quelle dentro restano tutte: escono fuori davanti ad una sedia vuota.
Ma ora rido. E allora sì, aspetta. Eccolo il tuo discorso. E’ quello che ti direi se fossi qui. Ti direi della ferita, ti direi di quanto amore mi hai tolto murandomi in quello che c’era e che hai distrutto tu.
E sì, ho capito Lucia. Ho capito che devo solo parlare di me: che non devo muovergli accuse, che non posso dirgli quello che mi ha fatto. Forse hai ragione, tu che sei una psicologa e stai cercando di curare me. Ma come faccio a parlare per modi di dire, come faccio a dipingere l’arcobaleno senza colori, come faccio a parlargli di chi sono senza nominargli la ferita?
Posso sorridere, sì. Posso essere cortese e garbata. E sì, aspetta: posso essere anche organizzata, auto ironica, responsabile. Posso anche far finta che non mi importi, che non mi manchino i suoi abbracci, le sue carezze, quei lunghi discorsi, quelle passeggiate. Posso fingere che la ferita non sia colpa sua.
Sì, devo parlare solo di me, ho capito.
Ho deciso di trasferirmi e di ricominciare daccapo. L’ho fatto perché ho sentito un nodo dentro e la voglia di tirarlo fuori e di farlo a pezzi. L’ho fatto dopo un muro e una malattia. L’ho fatto dopo che te ne sei andato. Sì, proprio tu.
L’ho fatto come ogni giorno vado in bicicletta contromano, senza casco e senza luci. Senza pensare.
Negli ultimi tempi ho conosciuto tante persone. Di un paio di loro mi sono innamorata dopo una birra e quattro parole. È che tanto lo sanno che non li faccio entrare: mi guardano e capiscono. La vedono in un minuto, dritto dentro, la ferita. La vedono e capiscono che ci sei di mezzo tu, nei chilometri di tutto quello che non ci siamo mai detti.
Forse quel vuoto tu non ce l’hai. O forse ce l’hai impresso talmente bene che è diventato un organo vitale.
Voglio un interprete, un dizionario, un libretto di istruzioni.
È tutto troppo e non ho più le parole, io che i nomi non ho saputo darli mai. E sì, mi manchi. E e sì, ti perdonerei. Mi mancano i tuoi abbracci, e sì, ti abbraccerei. E piangerei, come piango quando gli altri capiscono quello che non volevo si vedesse.
La mia storia fa sempre o pena o paura.