Le prime cose che vedi sono una mongolfiera, una torretta di un ex-arsenale e una frase del giovane Holden, che non capisci.

Passi per corridoi con soffitti arancioni leggendo Baricco sui muri: la scuola l’ha fondata lui e può modificarla come fanno col mondo le assurde carte geografiche appese alle pareti delle aule con i numeri pari. Quelle dispari sono nell’ “Acquario”, un corridoio a doppi vetri per lasciarsi guardare: è questo che si fa in questa scuola. Dentro per raccontare meglio fuori.

Per entrare devi essere giovane: tra i 19 e i 30, altrimenti ti mandano al doposcuola, alle “Palestre”, come le chiamano loro, che di nomi strani ne coniano parecchi. Gli studenti sono un po’ IED, un po’ Dams, un po’ scienze politiche, svelano quel tocco di Bocconi quando ti guardano sotto gli occhiali hipster bevendo un succo di frutta Alce Nero. Hanno sempre l’aria di chi si è svegliato da poco e un pacchetto di tabacco in mano. Sembra si sentano superiori, ma se ci parli capisci che non sempre è vero. Spesso non sanno bene dove vanno, come foglie, come navi, come frecce, come la forma del tavolo della sala professori, accuditi anche loro da pareti di libri.

Si possono sedere per terra e ai Prof devono quasi sempre dare del TU: li hanno pagati per questo 10000 euro all’anno, gli holdeniani. Studiano digital, storytelling, scrittura, serialità e giornalismo, si ritrovano su sedie colorate a parlare di sesso, Prima Repubblica, cinema, realtà aumentata, psicologia. Lo fanno spesso nel cortile o nel terrazzo, prima di entrare in una delle lezioni nel “General Store”, in quell’antiteatro –colorato- di poltrone scomode dove passano Grossman, De Lillo, Parker, De Mauro.