Di spazzolino in bagno è rimasto uno solo. L’altro l’ha buttato lei. Ha rimesso le ciabatte nella scatola, lavato l’asciugamano giallo, cambiato le lenzuola. Lui sarà con i suoi amici, col suo sorriso leggero. Greta lava i piatti. Prima lo faceva sempre lui.
Leonardo fa il chimico. Ha trentacinque anni, le spalle muscolose e un tatuaggio sulla scapola. Quando è stanco sente freddo, il suo colore preferito è il viola, soffre il solletico. Va sempre in giro con la sua bici da corsa arancione. Non mangia pasta né beve caffè.
Tra i due chi parlava di più era lui: le raccontava del suo lavoro a Taiwan, di Kusturica, del suo anno in giro per il mondo. Per risparmiare aveva comprato un volo da Milano, del bagaglio non aveva avuto bisogno. Prima di salutarlo Greta gli aveva scompigliato i capelli. Lui l’aveva guardata di traverso, per vedere se piangeva. Ma lei aveva pianto solo dopo, tirandosi su il cappuccio della felpa. Avrebbe voluto che piovesse, così le lacrime le avrebbe nascoste meglio.
“Se non mi chiama entro tre giorni lo cancello”. E non c’entrava la differenza d’età, non c’entravano le partenze. C’entrava lui e la sua voce quando cantava De André e quella fossetta quando ricordava la carbonara di sua nonna. Lui che leggeva Kundera, di notte tremava e per parlare del cielo citava Magritte.
“Parto”. Le aveva detto dieci giorni prima. Greta non aveva risposto: si era solo stretta nella sua sciarpa colorata. Avevano fatto una passeggiata. Greta avrebbe voluto scappare da quelle spalle larghe e dalla voglia matta di ridere che le metteva addosso lui. Meglio i rimpianti che le ferite. Ma ormai si era sporta, e appoggiandosi alla sua bicicletta gli aveva detto: “Vieni comunque da me?”
“Tanto la strada la conosco” aveva risposto lui, abbracciandola nel suo maglione verde. Ed erano finiti, come sempre, sui sessanta centimetri del divano di Greta. Lui le aveva fatto il solletico. “Il mio stipendio per i tuoi pensieri” le aveva detto, ridendo anche per lei.
“Mi dispiace”.
“Di cosa, ti dispiace?”
“Di averti illusa”.
“Me lo avevi detto, che prima o poi saresti partito”.
“Avrei voluto che non fosse così in fretta”.
Greta si era lasciata affezionare. Forse perché lui si ricordava i compleanni, i nomi degli amici, i ricordi condivisi quando non è ancora mattina e si è in due, svegli solo a metà. Leo era riuscito a spostarla. L’aveva tirata fuori dalla sua sala d’attesa e messa alla porta. Dimenticarlo sarebbe stato come scavare un pozzo con un ago.
“Spero che tu non ti sia innamorata. Sono stato bene con te, ma non voglio niente di più”.
E vallo a capire se era colpa di Greta, se era perché non era bella abbastanza, o se era per lo strato di fil di ferro che Leo si era cucito dentro. Aveva paura che le persone se ne andassero. Per questo scappava sempre prima lui.
“Non fa niente” aveva detto lei. Lui l’aveva baciata.
“Tic tac” le aveva detto vedendola triste.
“Cosa?”
“Non c’è tempo per essere malinconici”.
“Perché no?”
“I rimpianti potrebbero riempirti tutta”. Si era appoggiato contro il viso stropicciato di lei e aveva iniziato a coccolarla piano, come i vecchi che hanno paura di far rumore.
“Se pensi troppo i problemi non vanno più via” le aveva detto.
“Dipende se tu resti oppure no”. Aveva risposto Greta, troppo fragile per lasciarsi consolare.
“Vorresti che rinunciassi a partire?”
“Non tirerò conclusioni per te”.
Era diversa, Greta. Portava gonne corte e parlava di Dio. Tradiva restando franca, si nascondeva ma poi si raccontava anche agli sconosciuti. Voleva fuggire ma era divorata dalla vertigine di rimanere. Sorrideva e piangeva spesso, che per lei era un po’ la stessa cosa.
Leo le aveva portato una valigia che non voleva più chiudersi. Aveva avuto il dono d’insistere, dicendogli quello che la sua mente suggeriva, senza fare domande. L’aveva aiutata a cadere, a entrare nelle porte che aveva spalancato, senza aver il coraggio di oltrepassarle.