Quando entri dentro il Sermig vedi il cielo.
È un cortile silenzioso, quello dell’ex Arsenale, un monastero metropolitano senza il tetto. “La bontà è disarmante” si legge di fronte all’ingresso, sopra le casse di vestiti portate da tutta Torino perché vengano redistribuiti a chi ne ha bisogno. Alle pareti foto di bambini, di anziani, di volontari, di clochard. È di loro che il Sermig si occupa dal 1964, offrendo servizi di accoglienza e aiuti alimentari, in un sistema completamente basato sul volontariato.
Nei dormitori incontro Simona. Ha i capelli corti, argentati. Non è truccata. Parla lentamente. Dice che i poveri l’hanno perseguitata per tutta la vita, che ha sempre voluto far qualcosa senza mai sapere come. Quando, quasi vent’anni fa, ha chiesto di lavorare in accoglienza i responsabili le hanno messo una ramazza in mano. Per un anno ha passato i suoi sabati pulendo stanze e gabinetti.
“Puoi accogliere qualcuno solo se gli hai preparato un posto” mi spiega. “Gli ambienti devono essere puliti per dare dignità e aiutare a ricreare una vita”. Dopo un anno è passata all’accoglienza e in pochi mesi è entrata stabilmente nella fraternità del Sermig.
Per essere accettate le ragazze devono garantire di non portare alcool, droghe e oggetti appuntiti. Le donne ospitate sono per lo più nigeriane, camerunesi e ivoriane ma negli ultimi anni le italiane sono aumentate. Quasi tutte le nigeriane sono vittime della tratta, di solito non hanno i documenti, certe volte solo la ricevuta della domanda di permesso di soggiorno. L’età media è tra i diciotto e i venticinque anni, anche se non mancano i casi di minorenni, riconosciute grazie agli esami ossei. Di loro il Sermig non può occuparsi: questi casi vengono gestiti dall’Ufficio Minori.
Dalim e Fatma sono due nigeriane di ventidue e ventiquattro anni. Da quando sono arrivate in Italia nel 2015 hanno subito vari interventi ginecologici. Il loro permesso di soggiorno è scaduto un anno fa. Hanno fatto ricorso alla Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale senza, per il momento, ottenere risposta. Hanno lasciato il centro di Moncalieri gestito dalla Prefettura perché avevano problemi con la responsabile. Difficile capire se dicano la verità. Le donne come loro sembrano avere un muro dentro, non si fidano di nessuno, nemmeno dei volontari. Solo ai connazionali si affidano. Ma spesso è proprio da loro che vengono sfruttate. Eppure non è di questo tipo di sfruttamento che Simona mi parla quando le chiedo una storia che l’ha colpita. Non mi parla di povertà materiale, Simona, ma mi racconta di una donna incontrata per strada. “Camminava come se fosse persa. La fermai, le chiesi se avesse bisogno di qualcosa. Mi disse che le era stata appena diagnosticata una malattia grave ma che non sapeva con chi parlarne”.
Questa donna avrà fatto parte delle decine di persone per le quali la rete familiare si è sgretolata, che non sono state sorrette da rapporti che credevano più forti delle dipendenze, delle malattie, dei fallimenti. La povertà di oggi è fatta di eventi inattesi che privano delle risorse necessarie per soddisfare i bisogni primari, provocando reazioni a catena in diversi ambiti di vita. Sono persone che hanno subito uno sfratto, una separazione o perso il lavoro, o che hanno avuto problemi legati al gioco, alle dipendenze, alla depressione. Sono uomini ai quali la bottiglia è costata il lavoro, il lavoro la casa, la casa la moglie e l’affidamento dei figli. A Torino come altrove due sono le più grandi categorie di povertà: quella economica e quella relazionale. Nel primo caso ci si riferisce alla mancanza di mezzi di sussistenza, nel secondo allo sgretolamento della rete relazionale di supporto.
Nell’area torinese determinante è stata la crisi della Fiat e del suo indotto, iniziata nei primi anni del 2000 e non ancora conclusa. Il risveglio edilizio, le ricadute positive delle Olimpiadi, la costruzione della metropolitana e le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia non sono riuscite a bilanciare gli effetti della delocalizzazione del settore produttivo. Così oggi solo a Torino i poveri sono più di centomila, pari al 15% della popolazione, raddoppiati negli ultimi dieci anni. Numeri elevati, che dimostrano come la povertà sia diventata una terra di mezzo abitata da crisalidi di ex-benestanti, da un ceto medio impoverito, da famiglie che vivono a Crocetta ma ricevono gli aiuti alimentari della Caritas, che per pagare l’università dei figli hanno venduto l’argenteria al banco dei pegni. Sono cinquantenni con trent’anni di contributi finiti in cassa integrazione, o lavoratori che hanno avuto per anni contratti temporanei prima che arrivasse la mobilità. Sono piccoli impresari soffocati dalle tasse e dalle rate del mutuo, padri separati, mamme precarie, giovani stranieri, liberi professionisti che hanno dovuto far fronte ad una malattia.
I tradizionali barboni sono rimasti in pochi. Li si trova in strada la mattina presto, perché ci hanno dormito o sono appena usciti dai dormitori comunali, iniziando il loro cammino tra centri d’ascolto, mense dei quartieri e bagni pubblici. Spesso hanno rotto col passato e raccontano della vita di prima senza emozione, quasi che le violenze, gli abusi, la perdita del lavoro non fossero cose loro. Ai centri di distribuzione viveri lottano per il tonno o per la Simmenthal, specialmente se hanno il diabete e pasta non possono mangiarne. C’è chi si siede sotto i portici vicino a Porta Nuova, con una giacca pesante, due sporte per la spesa e un giallo Mondadori. O chi disegna, come Antonio, un Cristo con i gessetti vicino alla Metro Vinzaglio.
La povertà torinese passa per le circoscrizioni cinque, sei e sette, per zone dormitorio cresciute con le grandi industrie siderurgiche, meccaniche e chimiche, che dalla crisi economica sono state travolte. Entra nelle camere da letto degli operai, nelle vie delle Querce o degli Ulivi di Falchera, supera le cascine per andare a bussare alle Vallette, in Via delle Primule o delle Magnolie, vicino allo stadio della Juventus e al Parco della Pellerina. A Barriera di Milano e Aurora si fa chiamare in lingue diverse, in quartieri multietnici cresciuti tra il mercato delle pulci del Balon e la dispensa ortofrutticola cittadina di Porta Palazzo. Ma se lo sguardo si allarga la si trova anche in centro, la povertà. E non solo sotto i portici.
Il vocabolario dell’assistenza torinese ha nomi che coprono tutta l’area metropolitana, dal centro di ascolto Le Due Tuniche della Caritas alla mensa del Cottolengo, dalle strutture dell’Opera Barolo alle case di Nonno Mario, che padri separati privi di un alloggio possono prenotare per incontrare i propri figli. Attori fondamentali sono anche i cinquantacinque Gruppi di Volontariato Vincenziano che in città aiutano persone in difficoltà, profughi, adolescenti, mamme, bambini, vittime di violenza. La loro attività è coordinata dall’hub di via Saccarelli.
Quando arrivo incontro Suor Angela. Ha un abito blu, occhiali tondi e una voce pacata, ma decisa. Che ha ottantaquattro anni lo scopro dopo averla ascoltata parlare per più di un’ora, dopo aver visto le sue mani tremare. Coordina le attività torinesi dei Gruppi Vincenziani da più di quarant’anni, seguendo personalmente le vittime della tratta. Domando a Suor Angela che ruolo abbia la fede nella sua vita. “Alla fine saremo giudicati su una cosa sola: sull’amore. Quello che chiedo ai volontari è di mettersi in cammino con ciò che hanno, sanno e fanno, indipendentemente da quante volte vanno in chiesa”.
Quando la saluto e mi avvio verso San Salvario è quasi sera. Mi metto i guanti, ci sono quattro gradi. Roxana è seduta su un sacco a pelo appoggiato ad un cartone. Ha i capelli castani, gli occhi verdi, la pelle chiara. Vicino a lei due cani.In un italiano stentato dice di avere diciotto anni e di essere rumena. A lato dei denti ha due macchie nere, le sue mani sono piccole, le unghie sporche. Trema un po’. Mi siedo per terra davanti a lei. È me che la gente guarda passando. “Non preoccupare te” mi dice lei. Apre la sua giacca di pile sformata e mi offre un fazzoletto. Lei a me, lo offre. Mi alzo e stringo la mano di Roxana: è la mia quella fredda. Prima di salutarmi Suor Angela mi ha detto che c’è una cosa sulla quale non transige. “La carità deve essere organizzata e inventiva. La gente muore per strada più per mancanza di organizzazione che per mancanza di buon cuore”.
Questo testo è parte di un progetto giornalistico realizzato nel 2017 per la Scuola Holden, su indicazione del giornalista Ezio Mauro.
Per approfondire:
- Vasi comunicanti, Rapporto Caritas su povertà e esclusione sociale, 2016
- Povertà Plurali, Rapporto Caritas su povertà e esclusione sociale, 2015
- La povertà in Italia, Istat, 2015
- Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta in Italia, Ministero del lavoro e delle politiche sociali, 2015
- Poveri in città: dove vivono e cosa chiedono, Cardaci, Dovis, Griseri, 2013
- Arte, Architettura e Paesaggio, a cura di Rossella Maspoli e Monica Saccomandi, 2012
- Impoverimento e povertà. Percorsi di vita e servizi a Roma e Torino, a cura di Aldo Morrone e Monica Reynaudo, Gruppo Abele, 2011
- Ruggine, regia di Daniele Gaglianone, 2011
- In precario equilibrio, vulnerabilità sociali e rischio povertà, un’indagine sulla percezione della povertà a partire dal quartiere di San Salvario di Torino, Caritas Diocesana, 2009
- Barriera Fragile, Caritas Diocesana di Torino e Università Cattolica di Milano, a cura di Chiara Ciampolini, 2007
- Periferie, Bernelli, Biondillo, Clementi, Lagioia, Montesano, Sebaste, a cura di Stafania Scateni, 2006
- Porca Miseria. un viaggio nelle nuove povertà, regia di Armando Ceste, 2006
- Discorsi sulla povertà. Operatori sociali e volontari a Torino, Cordano, Meo, Olagnero, gruppo di ricerca Acli Torino, 2003