Arrivammo in aereo, io e mia mamma per quattro voli e tre scali: Roma- Parigi, Parigi-Miami, Miami-Orlando, Orlando-Pensacola. Il mio primo viaggio negli Stati Uniti, la prima volta fuori dall’Europa, la prima volta da mio fratello, dopo quei sei mesi lunghissimi, dopo la morte di mio padre un anno prima. Mia mamma, cinquantenne con un debole per Calvin Klein, sul volo Parigi-Miami aveva guardato il duty free. “Qui sui prodotti le tasse non si pagano. Scegli qualcosa che la mamma ti fa un regalo”. Io avevo scelto un orologio Swatch, uno degli ultimi modelli ultrasottili, trasparente con una riga laterale nera. 

Appena arrivata in aeroporto devo averlo guardato con le lacrime agli occhi, mio fratello. Aveva messo su i muscoli, nessun segno di abbronzatura su quella pelle chiara presa dalla mamma. I capelli sempre corti, come vuole la regola militare, ricci e neri. Lui sempre alto e magro, come mio nonno; ad assomigliare a mio padre sarei rimasta solo io, nella mia carnagione olivastra, nei miei occhi scuri e – dicono – nel mio sguardo profondo. 

“Sei cresciuta!” Mi disse Angelo appena mi vide, e non con quel tono dei parenti che ti incontrano dopo mesi, stizzandoti le guance e rassicurandoti che sei grande. Me lo disse da ragazzo a ragazza, con un misto di orgoglio, guardando come mi ero alzata e quanto mi ero dimagrita. Chissà se gli raccontai del primo ciclo avuto poco prima.

Durante quel viaggio persi tante cose. 

Del portafoglio me ne accorsi a casa di Angelo, nel suo bilocale con la moquette, mentre sbirciavo dai finestroni che davano sul giardino del residence. Sull’ultimo volo, un aereo con file da quattro posti e come uniche bevande Pepsi e Seven Up, ci avevo giocato, aprendolo e riaprendolo emozionata, controllando che ci fossero tutte le mancette accumulate nei mesi precedenti “per le mie spese in America”. Quando capii di averlo perso mio fratello e mia mamma mi accompagnarono subito in aeroporto, dove Angelo lo recuperò nell’ufficio Lost&Found, parlando in una lingua veloce e sconosciuta.

Di quel viaggio negli States ricordo il ritorno in macchina con quel borsellino di cuoio stretto forte tra le mani, la bandiera americana nelle case sulla strada, le corsie larghe, i pick-up, le villette basse con i giardinetti di fronte, allineate nei loro colori pastello. Ricordo i viali tra i bilocali del residence e quella piscina dove avrei passato tanti pomeriggi. E poi i centri commerciali, i negozi che vendevano vestiti Roxy e Quicksilver, il vestitino rosa che mettevo tutte le sere, e che continuai a usare per i quindici anni successivi. Anche l’orologio me lo misi tutti i giorni, contravvenendo alla regola delle “cose belle da tenere da conto”. Finii per lasciarlo sopra una siepe, una di quelle del giardino del residence, dopo essermelo tolto per giocare a pallavolo con Angelo, il momento che aspettavo per tutta la giornata. Quando mi accorsi dell’orologio piansi. Arrivai perfino ad attaccare dei cartelli in giardino, sperando che qualcuno me lo avrebbe riportato. 

La mia prima volta negli States persi tante cose, ma ogni volta che ripenso a quel viaggio mi tornano in mente solo le foto di mia mamma e mio fratello sorridenti di fronte a un battello a New Orleans, io stretta a Angelo con un bicchiere colmo di cubi di ghiaccio e Seven-Up, il suo sguardo su di me mentre leggo la mappa di Disneyworld, quella volta che andammo al cinema a vedere a Star Wars, le sere all’Olive Garden a mangiare finto italiano, le chiacchierate in piscina sparlando di quel ragazzino conosciuto qualche giorno prima.

Prima di partire Angelo mi abbracciò forte. Ci sarebbero voluti anni per ritrovarci così.