Negli ultimi mesi ho riflettuto molto su cosa significhi la parola coraggio, una parola che mi è stata ripetuta infinite volte quest’anno, mentre accompagnavo mia mamma in una malattia terminale che poi l’ha portata a lasciarmi. Ci ho pensato a lungo anche quando ho firmato un divorzio, che ha significato battaglie interiori che prima pensavo esistessero solo nei libri, battaglie su cosa significa amare e su quanto certe volte si avvicini al lasciar andare: le aspettative, l’immagine di noi o dell’altro, l’affetto per noi o per l’altro.
Ci ho messo, ci metto ogni giorno, tanto coraggio nel provare a raccontare, davvero, la storia di chi sono. Nel farlo senza omettere i fallimenti, le difficoltà, le sconfitte, raccontando anche le volte in cui un lavoro non era come speravo, oppure i rapporti di team si sono fatti complicati anche a causa mia, o quando progetti non vanno come vorrei, nonostante tutto l’impegno, le competenze, la passione di cui sono capace.
Raccontare la mia storia con tutto il cuore, per quella che è davvero, anche nelle sue vulnerabilità, mi ha insegnato ad avvicinarmi alle persone: non solo amici, ma anche colleghi, clienti, stakeholder. Certe volte ha significato ammettere di non saper fare qualcosa, chiedere aiuto, porgere delle scuse, ripetere “grazie”.
Altre volte mi ha portato a spiegare come certe situazioni mi facessero sentire, anche se avevo paura di essere giudicata o esclusa. Imparare a raccontare la vulnerabilità mi ha permesso di costruire relazioni profonde e di aprire strade inesplorate, dove le connessioni e il networking mi aiutano a sognare in grande.
Ho sempre pensato che quando qualcosa ci cambia la vita dovremmo riportarlo indietro, perché l’effetto possa essere moltiplicato. Succederà alla Scuola Holden, nel corso che terrò da aprile, su “Raccontare la vulnerabilità”.